Tutte le infermiere che assistevano l’uomo in coma cominciarono a rimanere incinte, una dopo l’altra. La verità, che ben presto venne a galla, sconvolse tutti.

 Tutte le infermiere che assistevano l’uomo in coma cominciarono a rimanere incinte, una dopo l’altra. La verità, che ben presto venne a galla, sconvolse tutti.

La prima volta che accadde, il dottor Giovanni Mercuri pensò che fosse una semplice coincidenza. Le infermiere rimanevano incinte spesso; in un ospedale, dove la vita e la morte convivono così da vicino, la gente cercava consolazione come poteva. Ma quando la seconda infermiera che aveva assistito Matteo Rossi annunciò la gravidanza, e poi la terza, qualcosa nella sua mente razionale cominciò a vacillare.

Matteo Rossi era in coma da oltre tre anni. Aveva 29 anni ed era un vigile del fuoco; era caduto da un edificio in fiamme durante un soccorso a Milano. All’ospedale Santa Caterina, il suo caso era diventato una tragedia silenziosa. Il giovane dal volto sereno e la mascella decisa che non si svegliava mai. Ogni Natale arrivavano fiori da sconosciuti e le infermiere commentavano quanto sembrasse tranquillo. Nessuno si aspettava nulla oltre quel silenzio.

Fino a quando lo schema non divenne evidente.

Tutte le infermiere incinte avevano lavorato turni lunghi nella stanza 312B, accudendo Matteo. Nessuna aveva una spiegazione chiara; alcune erano sposate, altre no, ma tutte affermavano la stessa cosa: non avevano avuto rapporti da mesi. Imbarazzate e spaventate, chiesero di essere riassegnate.

Il pettegolezzo si diffuse rapidamente. Alcuni parlavano di contaminazione chimica, altri di un virus strano o di una reazione ormonale collettiva. Il dottor Mercuri, però, non trovava risposte scientifiche. Le analisi di Matteo erano le stesse di sempre: parametri stabili, attività cerebrale minima, nessuna reazione fisica.

Fino a quando decise di installare una telecamera nascosta.

Una notte di venerdì, quando l’ospedale rimase in silenzio, Mercuri entrò da solo nella stanza 312B. L’aria odorava di disinfettante e lavanda. Matteo era immobile, collegato alle macchine che ronzavano monotone. Il medico sistemò la telecamera e premette “registra”. Quella notte, per la prima volta, sentì paura di scoprire la verità.

Rivedendo le immagini il giorno dopo, vide qualcosa di inaspettato. L’infermiera Laura Cane entrò, controllò la flebo e rimase accanto al paziente più a lungo del normale. Poi gli prese la mano, la baciò con tenerezza e cominciò a piangere. Mercuri trattenne il respiro. Non c’era nulla di scorretto, solo una donna che parlava a un uomo addormentato, aggrappandosi a una speranza impossibile.

Rivedette ore di registrazioni. Diverse infermiere, la stessa scena: cantavano, pregavano, leggevano ad alta voce. Nessun comportamento inappropriato, solo umanità e tristezza. Fino alla sesta notte.

Alle 2:47, il monitor cardiaco di Matteo accelerò. Il suo battito salì improvvisamente. L’infermiera di turno si avvicinò, gli toccò il polso… e le dita del paziente si mossero. Fu un gesto minimo, quasi invisibile, ma reale. Mercuri non poteva crederci.

I nuovi esami mostrarono lievi segni di attività cerebrale. E se Matteo stesse cominciando a risvegliarsi? Tutto sembrava indicare un miracolo… fino a quando arrivarono i risultati del DNA.

Il laboratorio confermò qualcosa di impossibile: i cinque feti condividevano lo stesso padre biologico. E quel padre era Matteo Rossi.

Il dottor Mercuri ripeté i test in tre laboratori diversi. Il risultato fu identico. L’uomo in coma era il padre di cinque figli non ancora nati.

Quando la notizia trapelò, tutto il paese parlò del “Miracolo della stanza 312B”. Alcuni lo chiamarono intervento divino; altri, crimine. Mercuri non credeva ai miracoli, ma ai dati, e i dati raccontavano un’altra storia.

Un’inchiesta interna rivelò la verità. Un ex infermiere, Daniele Croce, era stato coinvolto in un progetto di ricerca sulla fertilità in pazienti in stato vegetativo. Dopo aver perso i finanziamenti, decise di continuare da solo. Aveva estratto e utilizzato materiale genetico di Matteo senza permesso, inseminando le infermiere a loro insaputa.

Lo scandalo fu devastante. Croce fu arrestato, l’ospedale affrontò cause milionarie e le vittime ricevettero risarcimenti. Mercuri, consumato dal senso di colpa, si dimise poco dopo.

Matteo Rossi, da parte sua, cominciò a mostrare lievi segni di coscienza: un battito di ciglia, un movimento della mano. Ma nessuno volle più tornare nella stanza 312B. L’aria lì era pesante, carica di qualcosa di più del dolore: un promemoria di fino a che punto può arrivare l’essere umano quando confonde la scienza con il potere.

La stanza fu sigillata per sempre. Sulla targhetta accanto alla porta si legge ancora il numero: 312B. Dietro, rimane solo il silenzio. E l’eco di un mistero che non avrebbe mai dovuto esistere.

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